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Piccolo Teatro di Bari: consenso del pubblico per I Favolosi Anni ’60 di Emanuele Battista, con Maurizio Sarubbi e Susi Rutigliano

di Romolo Ricapito

Al Piccolo Teatro di Bari “Eugenio D’Attoma”  diretto da Nietta Tempesta, il 6-7 gennaio  2018 la pièce “I Favolosi Anni ’60” scritta da Emanuele Battista, un intelligente excursus su come si vivevano a Bari gli anni del boom economico, presentata dalla compagnia “Amici del Sipario”.

 Emanuele Battista, barese, nato nel 1959, ha ideato questo spettacolo sotto forma di un monologo nel quale ha riportato reminiscenze, suggestioni, impressioni e tradizioni vissute nella sua infanzia e mediate a distanza con occhio critico (ma indulgente)  sui vizi e difetti dei baresi o dei pugliesi più in generale. Tali atteggiamenti sono ricalcati sul genuino entusiasmo popolare manifestato come reazione a un periodo fortunato nel quale c’era lavoro per tutti  (principalmente nel quinquennio 1960-65)  e ci si  riscattava definitivamente dalle privazioni del dopoguerra.
Lo show, ideato come monologo per un solo attore (che è Maurizio Sarubbi, regista dello spettacolo) in realtà raccoglie anche la voce di una coprotagonista, Susi Rutigliano, in una parte che sorregge quella principale  nella rappresentazione di caratteri come “la nonna” e la “maestra elementare”.
Proprio Susi Rutigliano entra in scena dalla platea con una valigia dopo la sigla di Carosello, la nota trasmissione Rai dopo la quale i bambini venivano mandati  regolarmente a dormire: è un classico dell’infanzia di molti di noi.
Una vecchia radio trasmette elementi storici, come la notizia che il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi nel 1947 recandosi negli Stati Uniti chiese ai rappresentanti politici aiuti per le popolazioni italiane impoverite dalla guerra.
Tali aiuti furono elargiti anche da alcuni paesi europei in base al Piano Marshall.
Il boom economico che si raffigura  nell’iconografia comune con l’acquisto di elettrodomestici come il frigorifero ma soprattutto il televisore, annunciato dalla musica di La Dolce Vita di Fellini, viene rappresentato in salsa barese con riferimenti alla città vecchia e al quartiere popolare del Libertà, zone  delle quali l’autore è originario.
Viene ricordato come in Santa Chiara (centro storico) nel dicembre 1943 i tedeschi cercassero di bombardare la nostra Cattedrale, ma entrando nel vivo della rappresentazione essa ricorda la  vecchia “famiglia allargata” quella cioè delle “famiglie numerose” e dunque alcune realtà sociali appartenenti ai nonni: nelle loro abitazioni non esisteva il gabinetto, o era condiviso  con gli altri inquilini del palazzo.
Ma lo spettacolo è diretto alla divulgazione delle usanze e delle tradizioni: le ristrettezze economiche del dopoguerra si trasformano in  pranzi esagerati e luculliani somministrati ai figli, a base di frutti di mare e braciole, durante l’ era del “boom”, introdotta da una nota canzone di Rita Pavone.
La rappresentazione raccoglie un’immediata simpatia  da parte del pubblico per la facilità di comprensione del testo e per la naturalezza apportata da  Maurizio Sarubbi, l’interprete, che si accentra sui ricordi  dell’infanzia, vissuta perlopiù in strada con i coetanei.
E’ presente un monologo in dialetto, per appunto caratterizzare con più fondatezza   l’eloquio originario  contaminato dalla “lingua barese”, quella pura, appresa dai compagni di giochi del quartiere.
C’è anche un tocco psicologico, ovvero le narrazioni vengono caratterizzate da una penetrazione degli altrui caratteri, mentre prevale la vena narrativa, appannaggio appunto del protagonista maschile.
L’identificazione è dunque facile e sempre maggiore,  mentre si parla della raccolta delle figurine dei calciatori o dei giochi da cortile,  anche se – va detto – emerge nella prima parte una sorta di dilungarsi sullo stesso argomento.
Se ne esce fuori con l’analisi della motorizzazione che negli anni Sessanta era praticata con la mitica Vespa,  ma con l’altrettanto iconica Fiat 500 bianca dall’interno rosso.
Viene analizzato lo spostamento della popolazione nei quartieri periferici come Iapigia, mentre una certa mentalità frugale, retaggio di atavica povertà, si accompagna all’incredulo godimento delle nuove comodità.
Ancora migliori risultati si ottengono laddove   vengono riportati i luoghi topici  della nostra città come la spiaggia di San Francesco alla Rena: viene ricordato Michele Tempesta, il bagnino gentiluomo padre di Nietta Tempesta, la padrona di casa del Piccolo Teatro.
I  luoghi  scelti, caratteristici  della Bari del Novecento, sono oggetto di una rilettura che però non è organica, ma frutto di una scelta ben precisa, ovvero di una selezione a monte.
Tra i posti incaricati di rappresentarci  vi è  giustamente, la Fiera del Levante e dunque lo Stadio della Vittoria, ad essa quasi attiguo.
Tali simboli sono gli spettatori muti di luoghi comuni della baresità o di certe abitudini, non sempre eleganti, ma certamente genuine e spontanee del popolo, dunque lette come peccati veniali.
E proprio la Fiera Campionaria e lo Stadio sono la proiezione semplicistica ma concreta  di prerogative che diventano una forma di auto-investitura, come il farsi vanto di non pagare i biglietti d’ingresso a queste strutture, quasi  tale comportamento costituisse una sorta di dimostrazione pubblica di orgoglio di appartenenza e  nello stesso tempo una patente di intelligenza.
E’ qui che lo  spettacolo diventa una sorta di disamina del costume, o del malcostume, compiaciuta ma sottilmente critica.
Altre scene che apportano validi contenuti sono quelle relative al periodo scolastico (scuola elementare) o relative al cinema “popolare” raffigurato in aneddoti sanguigni che riportano alla memoria il Supercinema, sala di terza visione tra via Ravanas e via Bovio frequentata principalmente da soggetti maschili scalmanati e interessati a contenuti permeati da un certo sdoganato erotismo, viene citato infatti il  film Malizia con Laura Antonelli.
Lontano lontano noto brano di Luigi Tenco, datato 1962, chiude il tutto.
Suggerendo, in sostanza ,che quegli anni irripetibili sono appunto lontani nel tempo e non torneranno mai più, in quanto il loro spirito naive rimane unico, sepolto da  tecnologie e da una realtà che rende tutti noi più infelici, perché ci imprigiona in sovrastrutture e  ruoli sociali resi insinceri dalle facciate esteriori: quelle  imposte dalle  nuove mode e da usanze  certo  più raffinate sulla carta, ma che ci spogliano della nostra  essenza naturale  di esseri umani comunicativi e spontanei.

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