Se la Strada Potesse Parlare: il genio di Barry Jenkins si impone ancora all’attenzione della prossima Notte degli Oscar Cinema Cultura 29 Gennaio 201929 Gennaio 2019 di Romolo Ricapito Con Se La Strada Potesse Parlare, il regista e sceneggiatore Barry Jenkins, che vide il suo precedente film Moonlight premiato a sorpresa con l’Oscar per il miglior film un paio di anni fa (ma anche per la migliore sceneggiatura non originale e il migliore attore non protagonista) continua la sua scalata al successo, ma prima ancora all’apprezzamento unanime da parte del pubblico e della critica mondiali, occupandosi di una storia ambientata ad Harlem a metà degli anni Settanta, tratta dal romanzo di successo di James Baldwin che porta lo stesso titolo del film e la data del 1974. Protagonisti di questa nuova vicenda, due giovani, lui di 22, lei 19, ovviamente neri, che si conoscono dall’infanzia e sviluppano nell’età adulta un amore da manuale, ovvero con tutti i canoni delle storie classiche, ma con l’aggiunta del contrasto che serve da motore alla trama, ovvero l’ingiusta accusa di stupro accreditata da un poliziotto ai danni di Alonzo “Fonny” Hunt . Il tutore dell’ordine in realtà non aveva tollerato che Fonny, allontanasse in malo modo un occasionale molestatore (bianco) della sua Tish, cacciandolo dal negozio di alimentari nei quali l’affronto si perpetrò. Il regista e sceneggiatore ha scelto un andamento rigoroso e solo all’apparenza convenzionale per quanto riguarda l’esecuzione di questa sua nuova produzione, che però usa i rimandi al passato prossimo riguardo le vicende degli innamorati. Dopo l’accusa di stupro, c’è la storia della gravidanza di lei e l’accordo tra le due famiglie dei fidanzati. Ovvero, si torna all’inizio della vicenda. Nella prima parte vengono anche usati toni da commedia o addirittura comici nei dialoghi, laddove la “suocera”, signora Hunt, impersonata da Aunjanue L. Ellis lancia strali sulla peccaminosità di Tish, cioè sulla lussuria dell’azione che ha portato a concepire un feto che la donna maledice. Trattasi di una seguace delle Sacre Scritture in una visione punitiva, ossia bigotta, immediatamente messa a tacere con un breve pestaggio dal marito Frank (Michael Beach). Per la fotografia si è scelto un colore in penombra, che è usato sia negli esterni che negli interni, vivacizzato ad esempio dagli abiti delle signore o delle giovani figlie appartenenti alle due famiglie. Regina King I protagonisti principali sono belli come modelli: Stephan James è un venticinquenne canadese attivo sia al cinema che in tv e che ha girato due altri film di argomento razziale come Selma-La Strada per la Libertà e Race-Il Colore della Vittoria, mentre KyKy Layne è una semi-sconosciuta, ma già opzionata per il prossimo film di Luca Guadagnino. A fare la parte del leone è però l’attrice Regina King nei panni della madre di Tisha, Sharon. La King in pratica ha già vinto il Golden Globe ed è probabile la conquista dell’Oscar sempre come migliore attrice non protagonista. L’anno scorso la stessa interprete ha vinto il suo terzo Emmy (Oscar televisivo) per una serie su Netflix. Lo sviluppo della storia d’amore è rappresentato come un intreccio e un insieme di sentimenti puri, in quanto sedimentati già nell’infanzia, che trovano la loro epifania in un rapporto sessuale quasi sacrale. La messa in scena di esso infatti dà origine al bambino che nascerà e vede lei, vergine, con un lui (più esperto) impegnato nella posizione cosiddetta del “missionario”. Tale sequenza è preceduta da uno strip dell’uomo, che rimane in mutande bianche, col fisico magro e nello stesso tempo scultoreo. Nella seconda parte Regina King ha campo libero nel dimostrare tutta la sua bravura che si concentra durante l’azione di un viaggio a Porto Rico per convincere la donna che ha subito lo stupro ed è transfuga, a testimoniare l’innocenza di Fonny. Il poliziotto che ha convinto la vittima a testimoniare il falso, l’agente Bell, è impersonato dall’attore britannico Ed Skrein che è anche un rapper e ha recitato di recente in un film per Netflix . Quest’ulteriore particolare vede confermato come nell’attuale cinema statunitense si adoperino con più frequenza rispetto al passato attori britannici (o canadesi) dalla specializzazione “mista” (cantanti, musicisti). Questo perché il cinema di Barry Jenkins, candidato quest’anno all’Oscar ancora come sceneggiatore per la categoria “sceneggiatura non originale” (ma anche la colonna sonora gareggia) è un insieme di contaminazioni, rimandi, contenuti del passato che però si rinnovano approdando a un prodotto completamente nuovo. In pratica, la riscossa dei neri americani ha trovato in Jenkins uno dei suoi principali rappresentanti, almeno sul piano artistico. La valorizzazione delle minoranze, concentrata in questo suo secondo film, denuncia un’amministrazione della giustizia che ancora ieri mancava di ogni legalità, punendo dei responsabili innocenti allo scopo di garantire un’apparenza di ordine effimero. La corposità della sceneggiatura, la cura di ogni minimo dettaglio utile alla trama, anche a livello visivo, la passione per la rappresentazione che sfugge dall’ordinario, posizionandosi ad alti livelli,creano la concezione di un cinema d’essai che rifugge le opere “commerciali”, quelle concepite soltanto per il botteghino, imbastendo una sorta di cinema più vicino a quello europeo come struttura e concezione e che si va espandendo sempre più, dominando i concorsi per le opere di eccellenza. Va detto che Se La Strada Potesse Parlare ha incassato per il momento negli Usa la pochezza di dieci milioni di dollari, ma la cifra è andata rapidamente incrementandosi dopo le recenti nomination. Ecco che dunque la gara, ed è giusto che sia così, aiuta moltissimo le pellicole che in un’altra maniera stenterebbero a farsi notare e ad attirare pubblico al cinema. 29 gennaio 2019