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Vincenzo Mastropirro esprime in “Pezzecatìdde “ la vita delle origini

di Maria Pia Latorre

Pezzecatìdde“,  ovvero trenta poesie per suggellare un’esistenza poetica, per rafforzare i paletti fondamentali della propria storia, per sancire con stringate parole la propria filosofia di vita. Trenta poesie per tracciare la propria personale collocazione nell’umanità e definire il senso di umano che ci portiamo addosso. Trenta poesie tracciate nella terra, rigate di roccia, bagnate d’acqua e fango.

Vincenzo Mastropirro

“Pezzecatìdde” è una riparazione tra cocci della memoria. Come nell’antica arte di ripristino dei manufatti di terracotta  in cui, col fil di ferro, prima si scavava precisi fori in perfetta simmetria, poi li si accostava per ricucirli, così Vincenzo Mastropirro ascolta i suoni delle parole, le avvicina tra loro, ne cerca gli incastri fonetici, ne scolpisce le potenzialità cromatiche e ce le dona come pensieri sospesi.

Il titolo della raccolta, vincitrice della XVI edizione del Premio di poesia in dialetto “Città di Ischitella”, riprende l’intercalare dialettale che utilizzava un sacerdote di Ruvo, nei ricordi d’infanzia dell’Autore, quando si rivolgeva a tutti quelli che incontrava. Era un vezzeggiativo dal significato leggero, per ricordare che gli uomini sono piccola cosa, briciole di pane, pezzecatìdde appunto.

In molte liriche i versi sono organizzati in stanze contrapposte una all’altra (direttamente o con frapposizione di versi) dove spesso si assiste ad un ribaltamento di senso o di figura.

Grande sapienza e matematica definizione nella costruzione di ogni poesia, dove ogni parola ha un proprio peso specifico, niente è intentato, tutto è costruito ad arte, a volte in forma di sillogismo, pur nell’immediatezza poetica.

Molte le occorrenze, tra cui spesso si fa ricorso alle “reziìune”, le preghiere, per appoggiarvici sopra preoccupazioni pensieri.

Una poesia solida, scolpita, come abbiamo anticipato, in ogni fonema, in nitide immagini, come quella del muretto che non crolla e non crollerà mai. Poesie costruite come partiture musicali, con il metronomo acceso e l’orecchio assoluto del musicista. Salvo che l’Autore va oltre la certezza della stabilità: “sacce oerò, ca ova scuffuò, u sacce/ e sacce piure ca nan m’ammandene cchjue/ a stoche già prequote sotte a chère pète. So però, he crollerà, lo so/ e so anche che non mi regge più/ che sono già sepolto sotto quelle pietre”. 

Nell’universo poetico del nostro poemusico convivono in armonico equilibrio più culture là dove la poesia si è fatta una casa di humus e vegetazione, di muretti a secco e paesaggio murgiano a perdita d’occhio: “Prèime de merèje/ vogghje scèje saupe la Murge/ acchjò na fungiarààule de cardengidde/ angenecchjàmme au custe e dèisce reziìune. Prima di morire/ voglio andare sulla Murgia/ trovare una fungarola di cardoncelli/ inginocchiarmi di fianco e recitare preghiere”. 

Numerose le figure retoriche utilizzate, come le anafore, ma soprattutto dominano quelle di suono. Altro elemento portante in questa silloge è la forza, intesa come elemento propulsore di vita: “‘ ‘nge vole u timbe ca ‘nge vole/ pe’ vedaje crìésce na gammìétte/ nu timbe cchjù lunghe du timbe/ ci vuole il tempo che ci vuole/ per vedre crescere un albero d’ulivo/ un tempo più lungo del tempo“, e con questi affondi Mastropirro dota di robustezza ed essenzialità  la silloge, attraverso  metafore che ci parlano di necessità primarie sfumate nelle parole eterne della poesia.

La splendida “Sciome ‘nnanze – Andiamo avanti“, poesia-manifesto, chiude la raccolta lasciandoci un positivo segnale di speranza e la gioia di aver letto la raccolta, e… sciome ‘nnanze, com’è solito affermare il poeta ruvese.

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