di Anna Gomes

Il 5 agosto del 1962 Marilyn Monroe muore a 36 anni, avvelenata dai barbiturici. Il primo di giugno avrebbe compiuto 98 anni ma se ne andò, lasciando la gente inorridita. Norma Jeane Mortenson, ragazza di umili origini era partita dal nulla, bimba senza padre e con una mamma schizofrenica, cresciuta in una casa famiglia, fu capace di diventare il simbolo di Hollywood. Ma per lei la vita vera era altra cosa perché, come aveva dichiarato: «La felicità è un’altra cosa… Questo qui è successo, fama. Non è felicità!», disse in un’intervista un anno prima di morire. 

Un mito ancora oggi, celebrato nelle arti, nella letteratura, nella moda, oltreché nel cinema e nel teatro. Come si spiega? Il mito non tramonta e lei è una figura archetipa, un talento naturale divenuta la star più famosa al mondo,  coraggiosa e fragile, bella e intelligente,  un’anima inquieta, schiacciata dai poteri forti. Come si fa a non amarla? E’ chiaro che di fronte a simili fenomeni scatta un processo di immedesimazione.

Secondo motivo per il quale  Marilyn nella coscienza collettiva è  divenuta un mito è il mistero della sua morte e quello di ciò che avrebbe potuto ancora fare. Se ripercorriamo la sua vita, conclusasi in solitudine nel suo bungalow di Los Angeles, ci domandiamo quali sarebbero i motivi per i quali si sia spenta. Per tutta la vita ha cercato di colmare un’affettività carente, senza mai riuscirvi.

Marilyn incontrò i due fratelli Kennedy, John e Bob, dei quali è stata l’amante. E qui scatta un altro motivo della sua popolarità l’essersi opposta alla logica implacabile del potere e ai suoi perversi meccanismi ed esserne poi stata schiacciata. Del mito di Marilyn anche l’arte si è fatta portatrice di un’epoca come Andy Warhol e il fiorentino Silvano Campeggi, in arte ‘Nano’.

A quasi sessant’anni dalla sua morte Marilyn rimarrà sempre un mito.

31 maggio 2022