Arthur Alexanian: una vita tra Francia, Algeria e Italia Cultura Libri 2 Novembre 20242 Novembre 2024 di M. Siranush Quaranta Arthur Alexanian, figlio della diaspora armena, in questi giorni è stato in Puglia, tra Lecce e Bari, per presentare il suo libro “Il bambino e i venti d’Armenia”. In questa intervista ci parla delle sue origini, della sua vita attraverso tre nazioni alla ricerca di quella stabilità e voglia di radicamento che lo hanno portato, una volta arrivato a Firenze, a “riscoprire” il proprio essere armeno ed a volerlo fissare nelle pagine dei suoi libri. La sua storia è la storia che accomuna tutti i discendenti di prima e seconda generazione, figli degli armeni scampati alle stragi ottomane del 1915 e costretti alla diaspora. Com’è nata l’idea per il suo primo libro? ll mio primo lavoro parte da una necessità di riconciliazione con l’armenità nel senso più ampio della parola, dalla lingua alla cultura, ma soprattutto dal voler ricostruire quei flash vissuti da bambino, ivi compreso il silenzio che è molto comune nelle famiglie armene dove tutti tacciono, ma questo vale anche nelle famiglie ebree, e ricostruire tutto questo per concedermi una forma di identità. La cosa paradossale è che io ho lasciato la Francia all’età di 11 anni, perché i miei genitori mi hanno mandato in un collegio armeno di Venezia (il Moorat-Raphael) a più di 1000 km da dove sono nato. Quando sono uscito da lì ero pienamente armeno anche nella lingua. (il collegio aveva il primato dell’istruzione e dell’educazione armena). Il mio vero cognome di mio padre era Varakadjian, ma lo cambiò in Alexanian durante un viaggio da Atene a Marsiglia. E successivamente come procede la sua vita? Il prosieguo non è stato facile perché sono ritornato in Francia ho fatto un esame di ammissione a Grenoble ma non ho ricevuto l’equivalenza della maturità; invece, dopo poco, arriva l’obbligo di presentarmi a una visita medica militare; era periodo della guerra di Algeria e dopo sei mesi si andava ad affrontare una “brutta guerra”, una delle ultime guerre postcoloniali. Allora lasciai la Francia e tornai a Venezia, perché era uno punto di riferimento, e lì avevo uno zio prete che mi ha aiutato a iscrivermi a Roma al biennio in chimica industriale diventando al contempo un disertore. In questo periodo la mia armenità era sopita. Ho finito l’Università a Bologna e in tutto questo tempo ho abbandonato un po’ la famiglia. Non so se mia madre fosse stata consapevole o no di tutto questo, ma fa parte un po’ della rassegnazione alla vita che abbiamo noi armeni. Arthur Alexanian Alexanian continua il suo racconto parlando della sua vita come un continuo andar via: dopo la laurea raggiunge gli Stati Uniti, a quei tempi una meta appetibile, ma non vi resta, non sapendo ancora quale paese potesse farlo sentire “a casa”. Cosa succede dopo l’esperienza americana? Per arrivare al perché ho voluto scrivere il libro, dopo gli USA accetto un lavoro in Algeria, allora già indipendente, ci vivo tre anni e credo che quel paese mi abbia formato. A 27 anni avevo la responsabilità per una grande società chimica nordamericana su Algeria, Marocco, Tunisia e Libia, e ciò mi ha portato a gestire e avere rapporti con delle grosse fabbriche e i poteri politici, come Eni che si chiamava Sonatrach. Ma volevo far qualcosa sull’ambiente come tecnico, per vedere come si possono gestire, facendo consulenze e analisi, le problematiche delle matrici ambientali quali l’aria, l’acqua, i rifiuti, l’acustica. Per questo motivo lascio l’Algeria e vado a Genova, guadagnando molto meno, per una ditta che era all’inizio su queste problematiche e vi rimango cinque anni. Come arriva a Firenze? Forse non lo so neppure io. A 29 anni arrivo a Firenze dove apro un laboratorio di analisi (che esiste tuttora) e mi sposo: io emigrato di lusso sposo un’altra emigrata, fuggita dall’Argentina, di un’era più moderna. In tutto questo tempo io non mi interesso di Armenia, non parlo e non scrivo armeno e vado a trovare la mia famiglia uno, due volte l’anno. Ad un certo punto mia moglie viene a mancare e i miei figli vanno all’estero Amanda a Barcellona, occupandosi di violenza di genere e pari opportunità, Michael a San Francisco dov’è un affermato biologo molecolare. Quindi vent’anni fa tutto questo silenzio tutto questo buio, hanno fatto scattare qualcosa: per noi armeni della diaspora, io sono della prima generazione, ho visto da bambino quanto è stato difficile per i miei genitori essere accolti; nel mio caso parlo della Francia, che ha dato il lavoro e una casa, dopodiché però l’integrazione è sempre un processo difficile. Io non volevo parlare armeno, i miei genitori parlavano armeno in casa e io mi rifiutavo, e avevo vergogna quando parlavano la lingua armena in un luogo pubblico. Cosa mi porta a dire “io sono armeno” quando per anni ho tenuto tutto nascosto nella cenere? Quando nella professione, nel mio lavoro a Firenze, che non è sicuramente la città più adatta l’integrazione, riesco a trovare un modo per confrontarmi, a rendermi visibile sotto il profilo professionale (per dire quanto è importante il lavoro nel senso più ampio; lo stesso Charles Aznavour ha riscoperto il suo essere armeno dopo il successo); è a quel punto che ho voluto associare a questa mia realtà quella di recuperare tutto quello che avevo perso e accantonato. Cosa vuol dire sentirsi e poter dire “io sono armeno”: mettere i piedi ben saldi in terra professionalmente come forma di identità universale, non solo armena, e abbiamo tanti esempi. Quando mi sono detto mia moglie è morta, i miei figli sono lontani, si è creata una fase di solitudine ma anche di benessere, che mi ha permesso di tirare fuori fotografie, lettere. Era partito già con l’idea della pubblicazione, e cosa si è generato nel suo animo dopo l’uscita del libro? Io non volevo pubblicare. Ho cominciato a scrivere e mi hanno spinto gli amici, in particolare le donne che sono sicuramente più sensibili in queste cose, che mi hanno portato a farmi delle domande anche se io fino a vent’anni fa non mi ero mai interessato di armeni o Armenia. E di questo mio disinteresse mi sono pentito; ma avevo bisogno di associarla a questo senso “di poterlo dire”: anche se è difficile da capire, ma vale per molti. Ho cominciato a scrivere questo libro che non volevo pubblicare: una mia amica prese il manoscritto lo mandò a tre case editrici, e venne scelto dalla Ibiskos Ulivieri di Empoli, una casa media che pubblica quasi 50 libri all’anno e con cui continuo a pubblicare. Dietro questo libro ci sono quattro premi vinti; è stato pubblicato e dopo 10 anni ancora la gente lo compra e lo legge. Mi sono reso conto che sono un chimico ma anche uno scrittore, per cui ho continuato; ho scritto un libro di poesie raccolte negli anni, e un libro di racconti che ha un contesto molto armeno a partire dal titolo “Il melograno e la luna”, il melograno ritorna nella mia vita nella lettura di tanti libri in lingua armena. Poi arrivo a “Il calice frantumato” che vince il “Fiorino d’oro” (dare il Fiorino d’oro ad uno straniero non è cosa comune) e da lì comincio a sentirmi veramente scrittore. Ed arriviamo all’ultimo libro uscito a febbraio “Il tempo sospeso” che è un libro sull’immigrazione secondo una mia visione: ho immaginato un paese tipo il Lussemburgo, comprato da un fondo americano, che accoglie gli emigranti in particolare armeni, afghani, curdi, pachistani, siriani ma come? (il primo capitolo si chiama “Il modulo”) dando loro un lavoro e una casa in affitto. E racconto come va avanti questa multietnicità, ma anche come non vanno avanti i figli che nascono in questo paese, i quali non sopportano più il silenzio e le paure dei genitori. Dalla trama emerge la mia forma di tristezza verso alcune soluzione a questo problema, e non volendo spoilerare dico solo che la narratrice è armena e viene salvata da un azero. Sono entrato, attraverso la fantasia, in una riproduzione molto personale di quello che oggi avviene e di quello che si potrebbe fare. Un momento dell’intervista Attendiamo dunque presto a Bari Arthur Alexanian per la presentazione del suo ultimo lavoro “Il tempo sospeso”.